Sing it from the heart

La primavera era stata un toccasana per le rose — si ergevano forti e alte, svettando tra gli altri fiori dei giardini, i loro colori vivaci e brillanti, che rilucevano sotto il sole che faceva capolino timidamente tra stracci di nubi bianche e morbide, che si tingevano appena di rosa, essendo quella l’ora dell’alba.
Claere amava svegliarsi presto — aveva un sonno leggero, ed i primi raggi del mattino che s’infilavano dalla finestra della sua stanza bastavano a destarla e riportarla alla vita dalle braccia di Morfeo.
Sedeva sotto al davanzale, osservando i giardini ed i fiori appena bagnati di rugiada, il cui profumo giungeva fino alle sue narici, nonostante l’altezza della torre in cui era posta la sua camera da letto.
Come tutte le mattine, Claere non attendeva che la septa o le cameriere entrassero a prepararla e vestirla, preferendo indossare una vestaglia leggera e sgattaiolare fuori dalla porta, a piedi nudi, sperando che fossero ancora tutti a dormire, in modo da non far preoccupare sua madre, che avrebbe già dovuto ascoltare per il resto della giornata.
Con passo felpato si aggirava per i corridoi del castello, i piedi scalzi che sfioravano appena il pavimento freddo, piroettando e danzando ad occhi socchiusi, quando nessuno poteva vederla.
Fino a quando non urtò una superficie solida, ed aggrottò le sopracciglia, confusa.
Spalancò gli occhi color del cielo, ritrovandosi di fronte un ragazzino, probabilmente della sua stessa età.
I suoi capelli erano di un castano dorato, che scintillavano appena per via della luce che penetrava dalla finestra alle sue spalle; aveva gli occhi chiari e gentili, dello stesso colore dell’erba e delle foglie appena nate, le labbra piene, piegate in una smorfia mortificata.
«Sono dispiaciuto, mia signora», balbettò — la sua voce era come miele per le orecchie di Claere; non troppo alta, né troppo profonda.
Un ragazzo, stretto nel limbo tra l’infanzia e l’età adulta, proprio come lei.
«Non ti preoccupare», cercò di rassicurarlo la giovane Tyrell, sorridendogli animatamente, «Non mi sono fatta nulla, è colpa mia».
Il ragazzo si mosse rapidamente, esibendosi in profusi inchini, «La colpa è mia, mia signora», aveva affermato, sicuro, abbassando gli occhi.
Claere sorrise di nuovo, incominciando a girargli attorno, «Non ti hanno mai detto che è maleducazione contraddire una lady?», asserì, piccata, prendendolo in giro.
Il povero giovane parve preso in contropiede, «No, mia signora, non intendevo-»
La risata di Claere rimbalzò sulle pareti, cristallina e confortante, «Stavo scherzando», gli assicurò, «Posso sapere il tuo nome?», domandò.
«Samwyn, mia signora», si affrettò a rispondere, inchinandosi di nuovo, «Samwyn Flowers».
Il ragazzo era quindi un bastardo, dedusse la giovane, ma le pareva poco adeguato ricordarglielo, nonché poco carino. «Il mio nome è Claere, di casa Tyrell», si presentò.
«Lo so, mia signora».
Fu in quel momento che Mina notò che il ragazzo portava con sé un violino, perciò batté appena le mani, entusiasta, «Sei un musicista?», domandò, incuriosita; Samwyn annuì, svelto.
«Allora, per scusarti, potresti suonarmi una ballata», gli propose la giovane Tyrell.
Il ragazzo non se lo fece ripetere due volte, mettendo mano allo strumento, e sfiorando le corde con l’archetto.
Era dotato, un dono naturale di cui Claere si beò per qualche minuto, mentre decise di sedere a terra per accomodarsi mentre lo ascoltava suonare.
La sua voce era melodiosa ed intonata, mentre cantava di amori tragici ed impossibili tra lady e cavalieri, e Claere restò in ascolto, attenta, dimenticandosi perfino delle rose.